Entrega del Premio Nonino de Literatura 2011 a Javier Marías

Premio Nonino 2011: parola ai vincitori

I premi Nonino 2011, assegnati allo scrittore spagnolo Javier Marías, alla saggista e ambientalista americana Frances Moore Lappè, all’architetto Renzo Piano e all’etologo Irenaeus Eibl-Eibesfeldt. Queste che seguono alcune dichiarazioni alla consegna del premio.

RENZO PIANO, PAESE SI STA ASSUEFACENDO A IMPUNITÀ

“L’impunità è una cosa orribile a cui, temo, questo Paese si stia assuefacendo”. Renzo Piano, insignito oggi del Premio Nonino ‘a un maestro del nostro tempo’, non ha risparmiato critiche al sistema politico italiano. “La politica ha paura del talento”, ha accusato Piano affrontando i temi piú scottanti del panorama italiano, “ed é per questo che per i nostri giovani in Italia non c’é lavoro”. Ma per Renzo Piano c’é anche un’altra cosa per la quale l’Italia é decisamente arretrata: la mancanza della politica del confronto e del dibattito. “Negli altri Paesi – ha spiegato l’architetto – quando si tratta di realizzare opere sul territorio si é abituati a discutere e ad ascoltare le voci della comunità locali, i loro problemi, mentre in Italia ciú non accade perchè manca la politica dell’ascoltare”.

MARÍAS, IMPUNITÀ POLITICI È DILAGANTE

“La giustizia appare sempre piú impotente e le scappatoie per ingannarla si moltiplicano”. Dal palco del Premio Nonino, dove ha ricevuto oggi il riconoscimento ‘internazionale’, lo scrittore spagnolo Javier Marías ha affrontato il problema dell’impunità che costituisce il tema portante del suo nuovo romanzo Gli innamoramenti. “Il carattere piú scuro di questo romanzo – ha spiegato Marías – credo abbia a che fare con l’impunità, che sempre piú impera nel mondo; ci sono politici e imprenditori, nel mio Paese per non parlare dell’Italia, che festeggiano come una vittoria il fatto che il reato di cui li si accusa sia stato prescritto”.

STRALI AL MONDO POLITICO. MARÍAS E RENZO PIANO, REGNA IMPUNITÀ

Individui e comunità hanno strumenti, talenti ed energie per rendere il mondo piú vivibile, giusto, ospitale e concorde. Ma dalla politica non sempre i segnali sono quelli giusti, anzi si moltiplicano impunità e mancanza di rispetto per le regole. E’ questo il messaggio lanciato oggi da Percoto (Udine), in occasione della cerimonia di consegna dei Premi Nonino 2011 allo scrittore spagnolo Javier Marías, alla saggista e ambientalista americana Frances Moore Lappè, all’architetto italiano Renzo Piano e all’etologo austriaco Irenaus Eibl-Eibesfeldt. Un evento che ha richiamato 650 persone nella distilleria della famiglia Nonino, che ha inventato il riconoscimento 36 anni fa, con l’obiettivo di celebrare nel segno della cultura i valori dell’agricoltura e del territorio. A dare il via alla cerimonia è stata l’esibizione di un coro giovanile composto da diverse voci, tra cui i ragazzi della formazione ‘Mani bianche’ del Friuli, voluta da Giannola Nonino sulle orme dell’esperienza avviata in Sud America da José Abreu e sostenuta da Claudio Abbado. Applausi per l’esecuzione di Va pensiero e di una canzone dedicata al Tricolore italiano. “Vogliamo un’Italia cosï, in cui stiamo tutti insieme”, ha detto Giannola, in sedia a rotelle a causa di un lieve infortunio.

Poi la consegna dei riconoscimenti da parte dei componenti della giuria presieduta dal Nobel per la Letteratura Vidiadhar Surajprasad Naipaul. “Accolgo questo premio con grande piacere e molto onore”, ha detto Marías ricevendo il ‘Premio Internazionale Nonino’. Un’occasione per annunciare l’imminente uscita del suo nuovo romanzo Gli innamoramenti e per lanciare i primi strali. “Il carattere piú scuro di questo romanzo – ha spiegato – credo abbia a che fare con l’impunità, che sempre piú impera nel mondo. La giustizia appare sempre piú impotente e le scappatoie per ingannarla si moltiplicano – ha proseguito – ci sono politici e imprenditori, nel mio Paese per non parlare dell’Italia, che festeggiano come una vittoria il fatto che il reato di cui li si accusa sia stato prescritto”.

Preoccupato dell’impunità si è detto anche l’architetto Renzo Piano, Premio Nonino ‘a un maestro del nostro tempo’. “L’impunità è una cosa orribile – ha affermato – a cui temo questo Paese si stia assuefacendo”. Ma Piano non ha mancato di affrontare anche temi piú ampi che segnano la crisi italiana. “La politica ha paura del talento – ha accusato Piano – ed è per questo che per i nostri giovani in Italia non c’è lavoro”. Altro tema negativo per il territorio, secondo Piano, è poi la mancanza di confronto. “Negli altri Paesi – ha affermato – quando si tratta di realizzare opere sul territorio si è abituati a discutere e ad ascoltare le voci delle comunitá locali, i loro problemi, mentre in Italia ciú non accade perchè manca la politica dell’ascoltare” Secondo Frances Moore Lappè, Premio Nonino Risit d’aur, “siamo dotati delle capacitá di cui abbiamo bisogno per creare il mondo che vogliamo. Acquisendo una ‘eco-mente’ – ha aggiunto – possiamo crescere come cittadini, per creare e far rispettare regole che portino alla luce il meglio”. Un invito a liberarsi dall’ideologia della ‘crescita economica illimitata’ e a misurare ‘le compatibilita’ ecologichè è arrivato infine dall’etologo, Premio Nonino 2011. “Possiamo risolvere i conflitti con le parole, senza violenza fisica”, ha detto Eibl-Eibesfeldt secondo il quale “dobbiamo colmare i nostri caratteri ereditari con indispensabili emozioni: tra amore o odio, pace o guerra, la scelta è nostra”.

Udine.20, 30 gennaio 2011


Más fotos de la ceremonia

Vídeo: Entrega del premio Nonino a Javier Marías

Vídeo: Entrevista en la entrega del premio Nonino a Javier Marías

Discurso de Claudio Magris

LA ZONA FANTASMA. 30 de enero de 2011. Discusiones ortográficas I

No sé si una de las funciones, pero desde luego uno de los efectos y grandes ventajas de la ortografía española era, hasta ahora, que un lector, al ver escrita cualquier palabra que desconociera (si era un estudiante extranjero se daba el caso con frecuencia), sabía al instante cómo le tocaba decirla o pronunciarla, a diferencia de lo que ocurre en nuestra hermana la lengua italiana. Si en ella leemos “dimenticano” (“olvidan”), nada nos indica si se trata de un vocablo llano o esdrújulo, y lo cierto es que no es lo uno ni lo otro, sino sobresdrújulo, y se dice “diménticano”. Lo mismo sucede con “dimenticarebbero” (“olvidarían”), “precipitano”, “auguro” y tantos otros que uno precisa haber oído para enterarse de que llevan el acento donde lo llevan: “dimenticarébbero”, “prechípitano”, “áuguro”. Del francés ni hablemos: es imposible adivinar que lo que uno lee como “oiseaux” (“pájaros”) se ha de escuchar más o menos como “uasó”. El inglés ya es caótico en este aspecto: ¿cómo imaginar que “break” se pronuncia “breic”, pero “bleak” es “blic”, y que “brake” es también “breic”? ¿O que la población que vemos en el mapa como “Cholmondeley” se corresponde en el habla con “Chomly”, por añadir un ejemplo caprichoso y extravagante, y hay centenares?

Este considerable obstáculo era inexistente en español –con muy leves excepciones– hasta la aparición de la última Ortografía de la Real Academia Española, con algunas de sus nuevas normas. Vaya por delante que se trata de una institución a la que no sólo pertenezco desde hace pocos años, sino a la que respeto enormemente y tengo agradecimiento. El trabajo llevado a cabo en esta Ortografía es serio y responsable y admirable en muchos sentidos, como no podía por menos de ser, pero algunas de sus decisiones me parecen discutibles o arbitrarias, o un retroceso respecto a la claridad de nuestra lengua. Tal vez esté mal que un miembro de la RAE objete públicamente a una obra que lleva su sello, pero como considero el corporativismo un gran mal demasiado extendido, creo que no debo abstenerme. Mil perdones.

Lo cierto es que, con las nuevas normas, hay palabras escritas que dejan dudas sobre su correspondiente dicción o –aún peor– intentan obligar al hablante a decirlas de determinada manera, para adecuarse a la ortografía, cuando ha de ser ésta, si acaso, la que deba adecuarse al habla. Si la RAE juzga una falta, a partir de ahora, escribir “guión”, está forzándome a decir esa palabra como digo la segunda sílaba de “acción” o de “noción”, y no conozco a nadie, ni español ni americano (hablo, claro está, de mi muy limitada experiencia personal), que diga “guion”. Tampoco que pronuncie “truhán” como “Juan”, que es lo que pretende la RAE al prohibir la tilde y aceptar sólo “truhan”. De ser en verdad consecuente, esta institución tendría que quitarle también a ese vocablo la h intercalada (¿qué pinta ahí si, según ella, se dice “truan” y es un monosílabo?), lo mismo que a “ahumado”, “ahuyentar” y tantos otros. O, ya puestos, y siguiendo al italiano y a García Márquez en desafortunada ocasión, ¿por qué no suprimir todas las haches de nuestra lengua? Los italianos escriben “ipotesi”, “orrore”, “eresia” y “abitare”, el equivalente a “ipótesis”, “orror”, “erejía” y “abitar”. Y dado que la Academia parece inclinada a facilitarles las cosas a los perezosos e ignorantes suprimiendo tildes, no veo por qué no habría de eliminar también las haches. (Dios lo prohíba, con su hache y su tilde.)

En cuanto a “guié” o “crié”, si se me vetan las tildes y se me impone “guie” y “crie”, se me está indicando que esas palabras las debo decir como digo “pie”, y no es mi caso, y me temo que tampoco el de ustedes. Hagan la prueba, por favor. Tampoco digo “guió” y “crió” como digo “vio” o “dio”, a lo que se me induce si la única manera correcta de escribirlas es ahora “guio” y “crio” (en la Ortografía de 1999 poner o no esas tildes era optativo, y no alcanzo a ver la necesidad de privar de esa libertad). En cuanto a “riáis” o “fiáis”, si yo leo “riais” y “fiais”, como ordena la RAE, me arriesgo a creer que he de pronunciar esas formas verbales igual que la segunda sílaba de “ibais”, lo cual, francamente, no es así. Y si leo “hui” en vez de “huí”, nada me advierte que no deba decir esa palabra exactamente igual que la interjección “huy” (tan frecuente en el fútbol) o que “sí” en francés, es decir, “oui”, es decir, “ui”. Si un número muy elevado de hablantes percibe todos estos vocablos como bisilábicos con hiato, y no como monosilábicos con diptongo, ¿a santo de qué impedirles la opcionalidad en la escritura? La RAE parece tenerle pánico a la posibilidad de elegir en cuestión de tildes (que es algo menor y que no afecta a la sacrosanta “unidad de la lengua”). Pero es que además es incongruente en eso, porque sí permite dicha opcionalidad en “periodo” y “período”, “policiaco” y “policíaco”, “austriaco” y “austríaco” (yo siempre las escribo sin tilde), lo mismo que en “alvéolo” y “alveolo”, “evacúa” y “evacua” y otras más. ¿Por qué no permitir que cada hablante opte por “truhán” o “truhan”, como aún puede hacerlo (por suerte) entre “solo” y “sólo”, “este” y “éste”, “aquel” y “aquél”? La posibilidad de seguirles poniendo tildes a estas palabras no es para mí irrelevante. ¿Cómo saber, si no, lo que se está diciendo en la frase “Estaré solo mañana”? Si se la escribe en un mail un hombre a su amante, la diferencia no es baladí: sin tilde significa que estará sin su mujer; con tilde que mañana será el único día en que estará en la ciudad. No es poca cosa, la verdad. Por menos ha habido homicidios.

JAVIER MARÍAS

El País Semanal, 30 de enero de 2011

Discurso de Javier Marías en la entrega del Premio Nonino


Premio Nonino a Javier Marías

Innamoramento e impunitá

Ho appena terminato un nuovo romanzo, intitolato Gli innamoramenti, pur credendo che non ne avrei scritto nessun altro dopo le milleseicento pagine, in tre volumi, del precedente, Il tuo volto domani. Durante gli oltre due anni in cui sono stato impegnato con questa nuova opera -sempre con molte interruzioni esterne, come succede al giorno d’ oggi a quasi tutti i romanzieri-, ho avuto l’ insistente impressione che si trattasse di un libro particolarmente pessimista e oscuro, sebbene non manchino brevi scene umoristiche, come in tutti i miei libri. Ebbene, nel leggerlo intero per la prima volta mentre facevo la revisione finale, ho osservato con maggior chiarezza che il pessimismo non proveniva soltanto dall’ assunto del titolo: le cose meschine -oltre quelle nobili e disinteressate, è chiaro- di cui sono capaci le persone innamorate, e che, proprio perché dettate da un sentimento quasi universalmente considerato desiderabilee positivo, addirittura salvifico e “redentore”, di solito trovano facile giustificazione, sia per chi le commette sia per chi vi assiste. “Il fatto è che lo amava tanto”, si dice con comprensione. “È che ha sofferto molto per amore”, così vengono giustificati a volte coloro che incorrono in azioni vili o imperdonabili. Se non è un salvacondotto, lo stato d’ innamoramento si trasforma spesso nella maggiore attenuante immaginabile, sebbene quello stato induca persone buone a comportarsi talvolta come cattive; persone generose a essere malvagie; persone normali ad agire come criminali.

Ma, come ho detto, credo che il carattere più scuro di questo romanzo, che ancora non so vedere con un minimo distacco (ammesso che questo a noi autori sia possibile qualche volta), abbiaa che fare con un’ altra questione, l’ impunità che sempre più impera nel mondo, o questa è la sensazione che molti di noi hanno e che cresce in noi giorno dopo giorno. Non so citare a memoria, ma ne Gli innamoramenti si dice qualcosa di simile a questo: “Il numero di delitti ignoti supera di gran lunga quello dei delitti riscontrati, e quello dei delitti che rimangono impuniti è infinitamente maggiore di quelli che vengono puniti”. Contrariamente a ciò che dovrebbe accadere, la giustizia appare sempre più impotente, o più indolente, o più corrotta o connivente, o più vile, o più manipolabile, o più suscettibile di fraintendimenti e di perversione. Le scappatoie per ingannarla si moltiplicano, e vi sono politici e imprenditori -nel mio Paese, per non parlare dell’ Italia- che festeggiano come una vittoria e una discolpa il fatto che il reato di cui li si accusa sia stato prescritto, sempre convenientemente, quando una prescrizione in nessun modo equivale a un’ assoluzione, bensì a una dichiarazione di colpevolezza che tuttavia non può concretizzarsi. Le difficoltà della giustizia sono sempre esistite, e basta pensare, per confermarlo, ai pochissimi boia nazisti che hanno scontato una condanna. Non dobbiamo farci trarre in inganno: per un motivo o per un altro, l’ immensa maggioranza se l’ è cavata, si è liberata da ogni castigo, addirittura da ogni rimprovero e vergogna.

In modo sorprendente, questa tendenza, queste difficoltà hanno prosperato. Sono numerosi i dittatori (mi rifiuto di parlare di “ex dittatori”, come non si può parlare di “ex assassini”) che, nel migliore dei casi, finiscono per abbandonare il loro Paese con una fortuna in tasca e non compaiono mai di fronte alla giustizia. La proporzione di omicidi risolti, a confronto con le centinaia commessi contro donne a Ciudad Juárez da anni a questa parte, è ridicola, allo stesso modo di quelli che vi sono stati, ancora in Messico, nella cosiddetta guerra contro il narcotraffico. In tono minore, coloro che hanno causato l’ attuale crisi economica mondiale rimangono ai loro posti, per la maggior parte, e oltretutto danno ancora ordini. Oppure Bush Jr, Blair e Aznar, i quali hanno scatenato una guerra illegale e inutile che ha causato oltre centomila vittime, tutte evitabili, vanno tranquillamente a spasso per il mondo, spesso applauditi, e si mettono in tasca grosse somme di denaro per i loro libri, le loro conferenze e i loro “consigli” a grandi imprese. La sensazione che l’ impunità dòmini è inevitabile nelle nostre società, e ciò le conduce, in maniera graduale ma indefettibile, ad avere sempre maggiore tolleranza nei confronti di essa; a ritenere che ai singoli privati non competa intervenire né porre rimedio, quando non lo fanno neppure i giudici, e a considerare che lasciar passare un ennesimo delitto di cui si abbia conoscenzao di cui si sia stati oggetto, un crimine della vita civile, non abbia particolare importanza né cambi nulla nell’ essenza delle cose, di fronte alla sovrabbondanza dei delitti pubblici e politici che rimangono e rimarranno sempre impuniti. Si tratta di una delle più grandi demoralizzazioni del nostro tempo, e da qui viene, immagino, il mio fastidio nello scrivere su questo, se pure in maniera laterale e fittizia, in una cosa tanto modesta come un romanzo.

Mi dispiace di non essere stato più allegro e più ottimista in un’ occasione che si presterebbe all’ allegria e all’ ottimismo, almeno a titolo personale. Non ad altro invita il ricevere un Premio come il Nonino, in un Paese da me tanto amato come l’ Italia, e assegnatomi da una giuria tra i cui componenti vi sono numerose personalità che meritano tutta la mia ammirazione da anni. Romanzieri, poeti, sociologi, scienziati, cineasti e drammaturghi di cui non avrei neppure osato immaginare che conoscano il mio nome, tanto meno che si siano presi il disturbo di leggere quel che ho scritto, e ancora meno che lo abbiano apprezzato al punto di farmi questo grande onore. A tutti loro, grazie.

JAVIER MARÍAS

(Traduzione di Glauco Felici)

La Repubblica, 25 gennaio 2011

Marías: «Solo quando scrivo romanzi sono davvero sincero»

Javier Marías, 59 anni, sarà domani a Percoto (Udine) per ricevere il premio Internazionale Nonino, giunto alla 36ª edizione

Javier Marías è uno scrittore del «se». «Se quella notte mi avessero domandato come avrei reagito di fronte a un uomo che avesse tirato fuori una spada in un gabinetto pubblico…» dice nell’ultimo volume della trilogia Il tuo volto domani il protagonista-narratore Jaime Deza, e non sa darsi una risposta. La risposta è il romanzo, una cascata sintattica che diventa corpo a corpo con il tempo. È anche uno scrittore «difficile», per via delle sue lunghe frasi, del respiro ampio della scrittura. Ed è amatissimo dal pubblico dei lettori, in Italia almeno da quando Domani nella battaglia pensa a me (titolo shakespeariano proprio come Il tuo volto domani) lo ha lanciato nel ’98 anche come autore di grande successo. Domani riceve a Percoto il premio Nonino. Glielo consegnerà Claudio Magris. Nella motivazione gli si riconosce il merito di aver «indagato il rapporto tra la vita e la verità, il bene e il male della verità stessa e la drammatica difficoltà di convivere con essa, di scoprirla o di ignorarla». Marías è anche un intellettuale che non si sottrae alla discussione sui giornali. Fortemente critico verso il suo Paese, la Spagna, e in generale verso la situazione europea. Ma tiene a una distinzione che in un libro-intervista aveva definito così: «Quando scrivo romanzi non sono un cittadino».

Qual è la differenza?
«Quando si scrive per la stampa, lo si fa col proprio nome. Si suppone che non sia finzione. Nel romanzo lo scrittore è più libero, più selvaggio. In quasi tutti i miei libri c’è un narratore in prima persona, però il narratore non coincide necessariamente con me, non mi sento del tutto responsabile delle cose che dice. E forse per questo c’è più verità di quando si scrive per la stampa, dove si è consapevoli del dove e del perché. Nel romanzo uno è più sincero, brutale, pessimista».

Sembra la stessa differenza fra il discorso pubblico e i suoi retroscena. Tra diplomazia e Wikileaks.
«Su questo tema abbiamo registrato un dialogo con Umberto Eco per Il País. La mia posizione è nota. Tutti, non solo i governi ma qualsiasi individuo, tendono a nascondere qualcosa. Nella vita quotidiana possiamo parlare male di una quantità di persone in termini che non devono e non possono essere riferiti. Del resto è altrettanto normale che la gente voglia sapere. Sono posizioni entrambe comprensibilissime; però è assurdo che, per esempio in politica, tutto debba essere trasparente. Pensi ai servizi segreti: se decidiamo che sono utili alla società, devono restare segreti. Ricordo un meraviglioso libro di Giovanni Comisso sulle spie della Repubblica Veneta. Altro che Wikileaks».

Questa trasparenza impossibile è quella del romanzo?
«È quella che l’autore decide che sia. Le cose reali non si possono mai raccontare davvero, la narrazione è sempre parziale, le testimonianze discordano. Nel romanzo si può narrare tutto, perché sarà sempre incontestabile».

Un’operazione altamente artificiale.
«È un artificio accettato. Il romanzo è una forma di conoscenza, o piuttosto di riconoscimento. Lo si legge e si scopre che sì, quel che c’è scritto è “vero”, nel senso che avevamo già sperimentato quella stessa riflessione, senza saperlo, senza rendercene conto compiutamente. Quando scrivo tento di fare questo: avvicinarmi almeno un po’ alla verità delle situazioni e delle relazioni».

Con una sintassi inconfondibile, che sceglie la complessità in un’epoca di radicali semplificazioni.
«L’attuale tendenza non alla semplicità ma allo slogan mi sembra catastrofica. Può andare bene per i politici – e non ne sono neanche tanto sicuro. Non certo quando si cerca di ragionare. È vero, a volte sono un po’ complicato. Mi viene in mente Faulkner, cui chiesero come mai le sue frasi fossero così lunghe. Rispose che voleva dire tutto nello stesso tempo. Questo impulso è anche il mio».

Qual è il suo rapporto col tempo?
«Penso al romanzo come alla forma d’arte, insieme forse alla musica, che può occuparsi del tempo e rappresentarlo con la maggiore acutezza. Può restituirci la durata del tempo che veramente conta, quello che abbiamo vissuto intensamente. Può dare al tempo, che nella vita non ha tempo di esistere, proprio il tempo di esistere».

MARIO BAUDINO

La Stampa, 28 gennaio 2011

Un aroma de exilio decente

Como conté en este diario el 14 de junio de 1998, Jaime Salinas me vio por primera vez cuando yo tenía pocos meses, en brazos de mi madre, asomado a una ventana de una casa de Wellesley, Massachussets. Quizá por eso fue el primer editor que me dio trabajo, en 1974, cuando era un jovenzuelo, y me permitió traducir, para la Revista de Occidente que él dirigía, un cuento de John Updike en el que metí bien la pata una vez y aun me atreví a discutirle que la hubiera metido. Pese a eso, me confió enseguida la versión española de un libro entero, El brazo marchito, de Thomas Hardy, relatos de extrema dificultad en los que me dejé la piel y en los que creo que ya no metí pata alguna. Con posterioridad nuestros caminos se fueron cruzando y distanciando, pero sin duda ha sido una de las presencias fundamentales de mi vida, sobre todo de la juvenil. Esto, claro está, carece de toda importancia (o sólo la tiene para mí). Pero estoy convencido de que algo parecido podrían decir o haber dicho muchos de los escritores notables de la segunda mitad del siglo XX: Benet y García Hortelano, Azúa y Molina Foix, Millás y Gimferrer y Guelbenzu, Martínez Sarrión y Ana Moix. Por supuesto Carlos Barral, y tal vez, de otro modo, su tocayo Gil de Biedma.

Salinas fue todo lo contrario de la mayoría de los editores actuales. Procuraba mantenerse siempre en la sombra y dar poco su opinión, o, a lo sumo, disfrazarla en frases estudiadamente inconexas que a menudo dejaba sin terminar: «Bien, este libro, como tú comprenderás, se inscribe en una tradición que casi nadie ha seguido en España, así que, claro está, tú verás…», y así podía seguir durante un buen rato, sin que uno llegara nunca a saber qué le había parecido de verdad. Sus criterios editoriales, sin embargo, eran muy nítidos: disimuladamente nítidos. Y su principal objetivo era sacar a España de sus seculares provincianismo y atraso; elevar el nivel general, en la confianza de que la gente desea eso en el fondo: que se le pida un esfuerzo para prestarse a hacerlo, que se la trate como a adulta y cultivada para empeñarse en serlo; y conseguir que este fuera un país como los de nuestro entorno. Los españoles, tan dados a la fatuidad, creen que esto ya está logrado. Y desde mi punto de vista se equivocan, ha habido un monstruoso retroceso en los últimos diez o quince años.

Pero desde luego no estaba logrado en los años sesenta, cuando Salinas -junto con Javier Pradera- inició la colección de bolsillo de Alianza y nos puso a leer a Proust, casi en masa (algo inimaginable hoy), en la traducción de su padre, Pedro Salinas, y de Consuelo Berges, aún muy superior a las que han venido después; o nos rescató a Freud, al hoy ensalzadísimo Chaves Nogales y a tantos autores más. Tampoco estaba logrado en los setenta ni en los ochenta, cuando, gracias a él y a Claudio Guillén, se hicieron en Alfaguara maravillosas ediciones de clásicos: March y Curial y Güelfa traducidos por Gimferrer, Petrarca por Rico, Diderot por Azúa, Leopardo por Colinas, Manzoni por Esther Benítez, Marlowe por el malogrado Aliocha Coll, Newton, Kant, Maquiavelo, Sterne, Fielding y Sir Thomas Browne. O cuando se atrevía a publicar -en Alianza Tres o en la propia Alfaguara- a Calvino y a Platonov y a Modiano, a Bernhard y a Walter, a Mandelstam y a Biely, a Fernando del Paso y a Millás, más tarde a Coetzee o a Pérez-Reverte, aunque con Salinas ya más en la distancia, su torre ya más alta y aislada, sus juicios aún más camuflados.

En aquella semblanza de 1998 -más extensa, menos improvisada y sobre todo escrita sin pena ni estupor-, dije que era «uno de esos hombres que se dan poco en España y si se dan son malgastados, y que llevan consigo un aroma de exilio decente, un titubeo deliberado -como para no molestar con ningún aplomo- y un largo poso de civilización. Jaime Salinas lleva, en suma, el sello de la Segunda República, lo cual significa que apenas si lleva sello, de tan tenue que ese en concreto ha llegado a ser». Y, ahora que lo recuerdo, solía dar una gran fiesta en su casa cada 14 de abril, al menos mientras Franco vivió. Con su muerte hoy lejana y levemente exiliada, en Reikiavik, ese sello que hoy tantos usurpan se ha hecho todavía más tenue, nuestro país se ha empobrecido un poco más, y muchos escritores nos sentimos bastante más huérfanos y sin nuestro testigo principal.

JAVIER MARÍAS

El País, 26 de enero de 2011

Nuestro testigo

Yo no recuerdo la primera vez que hube de divisar a Jaime Salinas, pero por lo visto él la recuerda muy bien: según cuenta, fue a visitar a mis padres en nuestra casa de Wellesley, Massachusetts, en compañía de los suyos tal vez, en 1951. Vio a dos niños de corta edad -casi cuatro y dos años, respectivamente- sujetos a un árbol del jardín por largas correas que no les impedían jugar ni moverse, pero sí escapar y salir corriendo, atravesar la calle y ser arrollados por algún Chevrolet. Eran mis hermanos Miguel y Fernando, en aquel curso pasado en Nueva Inglaterra. Luego Salinas miró hacia arriba, hacia el segundo piso de la casa prestada por el poeta Guillén, y desde la ventana, mi madre mostró a un bebé de uno o dos meses con aspecto ya -pero sólo temporalmente- americano, por lo que Jaime Salinas se ha referido a mí a veces como al American Baby por cuya causa, sin duda, mis hermanos estaban prisioneros y que no debió de hacerle maldito caso desde sus alturas inarticuladas. Salinas tendría por entonces veintipocos años, y la verdad es que me cuesta imaginarlo en su juventud, pues desde que lo divisé de veras no ha cambiado absolutamente nada y siempre ha parecido un interesantísimo hombre maduro de edad indefinida, nacionalidad indefinida, lengua indefinida y definida personalidad disfrazada de indefinición. Uno de esos hombres que se dan poco en España y si se dan son malgastados, y que llevan consigo un aroma de exilio decente, un titubeo deliberado -como para no molestar con ningún aplomo- y un largo poso de civilización. Jaime Salinas lleva, en suma, el sello de la Segunda República, lo cual significa que apenas si lleva sello, de tan tenue que ése en concreto ha llegado a ser.

Al principio puede parecer alguien serio y que amaga rigor, tan discretos y educados resultan sus modales en un país de campechanías y confianzas rápidas; pero uno descubre enseguida que más bien se trata de un gran guasón dispuesto a disfrutar de su papel de «tito Jaime», como lo llamamos muchos escritores amigos suyos de mi generación y aun algunos de la suya, como Juan Benet y Juan García Hortelano. Recuerdo que cuando yo aparecí en su mundo con mi primera novela, escrita a los 18 años (o bien reaparecí tras mi desdeñoso comportamiento desde la ventana de Wellesley), causé involuntariamente un leve desconcierto entre aquellos tres amigos mayores, Jaime y los dos Juanes, que se consideraban «tíos» de Azúa, Gimferrer, Panero o Molina Foix y habían aceptado ser «abuelos» de Ana María Moix, algo más joven o desprotegida que éstos. «Pero si La Nena es la nieta», objetó al parecer Jaime Salinas, «¿entonces el joven Marías qué es, más pequeño aún?» «El perro», contestó García Hortelano sin vacilación, «Javier es el perro». De modo que ése fue mi tercer apodo para Jaime Salinas, y menos mal que yo no estaba atado al árbol en el otoño de 1951, o habríamos visto en ello predestinación. Salinas tenía a gala preguntar por las notas que los sobrinos, la nieta y hasta el perro sacábamos en la Universidad y regañarnos si era preciso: «El perro dice que va a dejar los estudios; hay que convencerlo de que no sea loco», podía comunicarle un día muy serio a don Juan Benet, quien, desmemoriado como era o fingía ser a menudo, reñía a su vez a Salinas: «¿Qué perro? ¿Qué estudios? Me estás hablando de un perro que estudia, Jaime, de un perro loco que estudia, no sé si te das cuenta de lo que has dicho». Como en todas las familias reales o ficticias, los miembros murieron o se dispersaron, y Jaime Salinas, quizá el más respetado, es hoy el único aglutinador verdadero de aquellos tiempos, aunque ahora controle sólo a distancia. Para los más jóvenes es además «nuestro testigo», aquél que podría contar nuestra historia casi desde el principio, literaria como personal.

Era el más respetado no sólo por su carácter sobrio y amable, nada histriónico y a la vez zumbón, sino porque era editor. Alguien -se suponía- responsable, que iba todas las mañanas a una oficina y daba órdenes a sus empleados, en verdad un arcano para el grupo de rastacueros que formábamos los demás. En realidad fue la primera imagen de editor que yo tuve, y así he andado después de engañado, sin querer darme cuenta de que si era único como individuo, también en su profesión resultaba de lo más singular. A diferencia de bastantes editores actuales, Salinas supo siempre que el protagonismo no debía ser suyo y que, como los antiguos banqueros o ricos en general, era muy preferible mover los hilos desde la penumbra y sin ser notado, ser tan sólo un elegante mediador. Aparte de su labor fundamental en la Seix Barral que no era sólo Carlos Barral y de su empuje al frente de la primera colección de bolsillo influyente de este país, la de Alianza Editorial, yo lo he visto acometer uno de los proyectos más ambiciosos, generosos, arriesgados y pacientes de la edición española, pensando siempre a largo plazo, en los lectores futuros y no sólo en los muy nerviosos que van a saltos de superflua novedad en novedad. Con su amigo Claudio Guillén -otro aroma de exiliado, y sin aprovechar- fundó la mejor colección de clásicos de que aquí haya memoria, y pronto -si no ya- esos Alfaguaras encuadernados en tela de Ausiàs March y Diderot, Leopardi y Kant, Newton y Sterne, se convertirán en volúmenes rastreados por los coleccionistas como joyas raras. Y, asimismo, emprendió la tarea de dar a conocer a Thomas Bernhard y a Robert Walser, a Mandelstam y a Biely y a Bessa Luis y a Millás, y a tantos otros contemporáneos que hoy parecen imprescindibles, o al menos lo son para mí.

Salinas ha fingido siempre saber poco de literatura, también a diferencia de algunos de sus colegas, que justamente fingen lo contrario y encima lo fingen mal. Nunca le he oído emitir un juicio rotundo sobre una obra, aunque de él dependiera que se publicase o no y su criterio fuera a ser decisivo. Ese criterio, que sin duda existe, lo ha guardado pudorosamente de los ojos y oídos de los demás, como si le pareciera de mal gusto -otro contraste- hacer prevalecer o exhibir o hasta expresar su opinión obligadamente subjetiva, como todas las demás. Es un hombre que ha sabido delegar, y en la elección de sus delegados ha residido una de sus mayores virtudes: sabía reconocer y señalar a los mejores en cada campo, a los más informados o persuasivos, los escuchaba y obraba en consecuencia, no siempre atendiendo a sus consejos al pie de la letra, todo editor que delega sabe también que su fe no ha de ser incondicional. Salinas es una clase de editor que apenas existe, pero no sólo porque los tiempos hayan cambiado, sino porque seguramente la suya es una clase que apenas existió jamás. No es que sea de otra época, sino que la suya empezó y acabó con él.

Yo tengo la impresión de que a veces le gusta o divierte hacerse pasar por un neurótico salido a medias de Dostoievski y a medias de Scott Fitzgerald, por improbable que resulte la mezcla. Con un vaso de whisky prohibido por los médicos en una mano y a menudo un cigarrillo o purito prohibidos en la otra, Salinas es capaz de mantener los mejores diálogos entrecortados que yo haya escuchado jamás, incluidos los del cine con Marlon Brando, James Dean y Montgomery Clift: con estudiados titubeos, dramáticos carraspeos, silencios inesperados y muletillas de su invención («como tú comprenderás» es ya un clásico de sus imitaciones), Jaime Salinas quiere hacernos creer que no está del todo instalado ni cómodo en ninguna de sus tres lenguas, el inglés de su infancia, el francés de su madre y el español de su vida adulta. Las tres, sin embargo, las habla tan perfectamente que hasta se permite mostrarse teatral en ellas.

No le falta el enigma de las personas extremadamente educadas y uno tiene la sensación de que más que ocultar prefiere callar, por pudor y por inseguridad acerca del interés que para los demás pudieran encerrar sus anécdotas y su pasado. Hace no mucho me quedé perplejo cuando descubrí que, con el nombre de Jimmy Salinas, se contó entre los primeros cuatro aliados -aunque no soldado, sirvió en las ambulancias del American Field Service en calidad de paisano uniformado- que cruzaron las líneas alemanas tras el desembarco, durante la Segunda Guerra Mundial. Él asegura que fue inadvertidamente, cuatro amigos de paseo en un jeep, pero lo cierto es que el hecho consta en la letra pequeña de los libros de historia. Rara vez habla de sí mimo, ni de aquel voluntario Jimmy ni del hijo del poeta ni del hombre que pasa sus veranos en Islandia desde hace mil años ni del editor inventivo y reputado que fue hasta que lo jubilaron; ni tampoco de los escritores mejores que conoció y editó, quizá porque es una de las cada vez más escasas personas del oficio que todavía sienten respeto por su materia prima, los autores, y no logran verlos como mercancía ni como condecoraciones. Está escribiendo unas memorias, serán por fuerza las de un enigma.

Su nariz algo ganchuda y su limpísima calva dominan su rostro; o quizá no; quizá sea la sonrisa tímida y frecuente y cálida, un poco de americano cosmopolita de Nueva Inglaterra que se siente de visita siempre, lo que predomina en medio de su envidiable y sempiterno excelente color. Seguro que con esa misma sonrisa juvenil y afable saludó desde el jardín de Wellesley al American Baby izado que, según parece y según dicen los nombres, es el mismo que le escribe ahora esta semblanza.

JAVIER MARÍAS

El País, 14 de junio de 1998

Mi editor favorito

LA ZONA FANTASMA. 23 de enero de 2011. Delaten, no se priven

Olvídense de que soy fumador y de que, como dije la semana pasada, la nueva ley antitabaco me parece fascistoide en sí misma y atentoria contra las libertades. La batalla ya la hemos perdido, y la mayoría de quienes encendemos pitillos somos más educados y civilizados que quienes llevan a cabo sus feroces campañas contra nosotros. Acataremos la ley y supongo que pisaremos bares y restaurantes con menos frecuencia de lo que solíamos. Sólo se nos permite consumir un producto legal, con el que el Estado español se ha forrado durante siglos y se sigue forrando, en nuestras casas y a la intemperie. Saldremos poco. Cada vez que se nos invite a un domicilio, preguntaremos antes si se nos permitirá fumar en él, y si la respuesta es “No”, no iremos. Ni a cenas ni a fiestas ni a tomar un café. Los fumadores y los no fumadores estaremos cada vez más divididos, posiblemente dejaremos de tratarnos. Ahora que la ignorante Leire Pajín y su padrino Zapatero preparan una Ley Integral de Igualdad de Trato y No Discriminación, con la que esa puritana pareja pretende “que no se humille a nadie y que nadie pueda sentirse humillado”, deben saber que no hay mayor humillación, para un 30% de la población –unos 14 millones de individuos, nada menos–, que verse excluidos de la sociedad por tener una costumbre –o un vicio, tanto da– a la que el propio Estado al que representan nos ha alentado durante décadas, en su beneficio y en el de la Sanidad de todos, que se paga en buena parte con los impuestos del tabaco.

Pero olvídense de esto. Lo que resulta más repugnante de todo el asunto es la actitud de los susodichos ahijada y padrino, que una vez más han demostrado que ni son de izquierdas ni tienen la menor idea de lo que es un sistema democrático, al haber instigado a los ciudadanos a comportarse como lo que no son ni tienen por qué ser, excepto en los regímenes totalitarios. Pajín y Zapatero habrían estado a gusto en la España de Franco, en el Chile de Pinochet, en la RDA de la Stasi, lo estarían en la Venezuela de Chávez, en la Cuba de Castro y en el Irán de Ahmadineyad, lugares en los que se conminó o se conmina a los particulares a ejercer de policías y chivatos y a delatar al vecino, a que todos formen parte indirecta de los Guardianes de la Revolución o como se llamen en cada sitio. Da lo mismo de lo que se trate en cada caso: aquí es impedir que las mujeres muestren un mechón de cabello, allí que nadie se aparte de la doctrina bolivariana, más allá –en nuestro país, durante cuarenta años– que haya “desafectos” o “tibios” y que queden impunes los “enemigos del Régimen”.

Elvira Lindo ve exagerado hablar de “represión” o “totalitarismo” ante una cuestión tan menor como el tabaco, y nos pide que dejemos esos términos “para cuando de verdad hagan falta”. Sólo puedo responderle que, para que de verdad no hagan falta –para que alguien no pueda ir a la cárcel por cualquier estupidez, o porque se les antoja a los gobernantes–, hay que señalar en seguida todo indicio de autoritarismo, por baladí que sea el asunto. Y puede que la libertad de fumar sin causarle daño a nadie –es decir, sólo entre fumadores voluntarios, lo único a lo que hemos aspirado– sea baladí. Pero no lo es, en cambio, que Zapatero y Pajín insten a los ciudadanos a actuar como delatores. Entre denunciar y delatar hay algunas diferencias, pero la principal es esta: el que pone una denuncia contra alguien ha de hacerlo a cara descubierta, firmando con nombre y apellidos, entre otras razones para que el acusado pueda defenderse y exigir al denunciante que pruebe sus cargos o se atenga a las consecuencias; el que delata lo hace a escondidas y anónimamente, sin arriesgarse siquiera a que el delatado le retire el saludo y sin verse obligado a demostrar nada. El delator es un ser despreciable, lo saben hasta los niños, y fomentar la delación es fomentar la difamación y la cobardía, lo que han hecho Zapatero y Pajín. El primero, además, ha añadido cinismo, permitiéndose decir que su ley “no es prohibitiva, sino preventiva”. Aún me acuerdo de cuando prometió que no cambiaría, en 2004. Parecía, por entonces, más persona que el resto de sus colegas.

Por si todo esto no bastara, varias asociaciones se han ofrecido a tramitar las denuncias de los delatores vocacionales, para que puedan conservar aún mejor su anonimato y no se tomen molestias. Una es Facua, que ejerce así de comisaría, lo mismo que Nofumadores.org, de la que no esperaba menos: hará cosa de un año, su Presidenta, Raquel Fernández Megina, me escribió una carta insinuando que, puesto que me oponía a la ley en ciernes, acaso estuviera pagado por las tabacaleras. Una de las cartas más mezquinas que he recibido en mi vida, y les aseguro que ya llevo unas cuantas. Le contesté recomendándole que, antes de hacer semejante insinuación, se informara de a quién se la hacía, porque, en lo relativo a aceptar dinero, yo no lo acepto ni del Estado, gobierne quien gobierne, y por eso declino siempre hasta las más inocuas invitaciones del Ministerio de Cultura o de los Institutos Cervantes. Pero es el franquismo redivivo, lo que estamos padeciendo: si alguien se opone a algo, no es porque esté en desacuerdo, sino porque está “comprado”. Entonces era por el oro de Moscú, se acordarán algunos. Ahora es por la industria tabaquera, o por las ganaderías si se defienden las corridas. Creer eso, o decirlo, es típico del pensamiento totalitario: sólo pueden discrepar de mí, que estoy en posesión de la verdad, quienes están sobornados. Delátenlos anónimamente, no se priven. Ya se sabe que, de las calumnias, siempre algo queda.

JAVIER MARÍAS

El País Semanal, 23 de enero de 2011

En busca de Dios, pero la televisión es un buen sucedáneo

Hubo un tiempo en que aquellos que se sentían abandonados por el resto de la humanidad se consolaban con el hecho de que el Todopoderoso, si es que nadie más, era testigo de sus tribulaciones cada día. Hoy esa misma función divina al parecer puede ser servida apareciendo en la televisión.

Recientemente discutí este fenómeno durante un almuerzo en Madrid con mi rey. Aunque siempre he estado orgulloso de mis principios republicanos, hace tres años fui nombrado duque del Reino de la Redonda (mi título oficial es Duque de la Isla del Día de Antes). Comparto este honor ducal con los cineastas Pedro Almodóvar y Francis Ford Coppola, y los escritores A.A. Byatt, Arturo Pérez-Reverte, Fernando Savater, Pietro Citati, Claudio Magris y Ray Bradbury, entre otros, todos nosotros unidos por la cualidad común de ser del agrado del rey.

La isla de Redonda, que ocupa menos de una milla redonda de las Antillas, está totalmente deshabitada, y creo que ninguno de sus monarcas ha puesto el pie en ella. Fue comprada en 1865 por un banquero llamado Matthew Dowdy Shiel.

Según una versión de la historia, Shiel pidió a la reina Victoria que estableciera Redonda como un reino independiente, algo que Su Graciosa Majestad hizo sin la menor vacilación porque no parecía plantear amenaza alguna al Imperio.

Con el tiempo, la isla quedó bajo el control de varios monarcas, algunos de los cuales vendieron el título varias veces, causando riñas entre legiones de pretendientes. En 1997 el último rey abdicó en favor del famoso escritor español Javier Marías, quien empezó a designar duques y duquesas a diestra y siniestra.

Esa es más o menos toda la historia. Suena como una tontería patafísica -esto es, más allá incluso de lo metafísico- pero, después de todo, no cualquier día se convierte uno en duque. El punto, sin embargo, es que en el curso de la conversación durante el almuerzo, Marías dijo algo que se me quedó en la mente. Estábamos hablando acerca del hecho obvio de que hoy la gente está dispuesta a hacer algo para aparecer en la televisión, incluso si es sólo saludar con la mano a su madre desde atrás de la persona que está siendo entrevistada.

Recientemente en Italia, después de ganarse una breve mención en la prensa, el hermano de una chica que había sido asesinada bárbaramente fue a ver a un agente de talentos para tratar de arreglar una entrevista en la televisión, supuestamente con la intención de explotar su trágica fama.

Hay otros que, si pueden disfrutar de la luz de las candilejas durante algún tiempo, están dispuestos a admitir que son cornudos o estafadores. Y, como saben los psicólogos criminalistas, muchos asesinos seriales están motivados por su deseo de ser desenmascarados y ser famosos.

¿A qué se debe esta locura, nos preguntamos Marías y yo? Él sugirió que lo que está ocurriendo hoy es el resultado del hecho de que la gente no cree en Dios. En un tiempo, los hombres y mujeres estaban convencidos de que todos y cada uno de sus actos tenían al menos un espectador divino, quien sabía todo acerca de sus acciones (y pensamientos), que podía entenderlos y, de ser necesario, castigarlos. Uno podía ser un proscrito, un bueno para nada, un don nadie ignorado por sus prójimos, una persona que sería olvidada en el momento en que muriera, pero estaba convencido de que, al menos, alguien le prestaba atención.

“Sólo Dios sabe lo que he sufrido”, decía la abuela, enferma y abandonada por sus nietos. “Dios sabe que soy inocente”, era el consuelo para aquellos condenados injustamente. “Dios sabe lo mucho que he hecho por ti”, decían las madres a los hijos ingratos. “Dios sabe lo mucho que te quiero”, gritaban los amantes abandonados. “Sólo Dios sabe por lo que he pasado”, gemía el pobre miserable cuyas desgracias a nadie le importaban. Dios siempre era invocado como el ojo omnisciente al que nada ni nadie podía eludir, cuya mirada otorgaba significado incluso a la vida más gris y sin sentido.

Hoy en día, si este testigo que todo lo ve ha desaparecido, ¿qué es lo queda? El ojo de la sociedad, de nuestros pares, aquellos ante quienes debemos mostrarnos para evitar descender al negro hoyo del anonimato, al remolino del olvido, incluso si significa hacer el papel de idiota del pueblo, de quedarse en paños menores y bailar sobre una mesa en la taberna local.

Aparecer en la pantalla se ha convertido en el sucedáneo para la trascendencia, y tomando todo en cuenta, es un gratificante. Nos vemos a nosotros mismos -y somos vistos por otro- en este más allá televisado, donde podemos disfrutar simultáneamente de todas las ventajas de la inmortalidad (aunque de un tipo rápido y pasajero) y tenemos la oportunidad de ser celebrados en la Tierra por nuestro acceso al Empíreo.

El problema es que, en estos casos, la gente confunde el significado doble de la palabra “reconocimiento”. Todos nosotros aspiramos a ser reconocidos por nuestros méritos, nuestros sacrificios, o cualquiera otra cualidad que podamos tener. Pero, después de haber aparecido en la pantalla, cuando alguien nos ve en la taberna y dice: “Te vi en la televisión anoche”, sólo te “reconoce” en el sentido de que reconoce tu cara, que es algo muy diferente.

UMBERTO ECO

Los Andes (Argentina), 23 de enero de 2011

Traducción al inglés

Diálogo politeísta. Encuentro entre Umberto Eco y Javier Marías

Foto. Luis Sevillano

Dos de los más influyentes intelectuales de hoy hablan sobre literatura, el ciberespacio, la libertad de expresión y la ruptura de cánones tradicionales. Del presente y el riesgo de sus consecuencias

Tan pronto se ven, Umberto Eco se apresura hacia Javier Marías que sorprendido ve cómo el escritor italiano se inclina ante él en una reverencia teatral, diciéndole: «Majestad»; a lo que Marías, saliendo de su sorpresa y con una media sonrisa, contesta casi en susurro: «Duque». Y empiezan a reír mientras se abrazan. Dos años antes, Marías, como rey literario de Redonda, había nombrado a Eco Duque de la Isla del Día de Antes.

Es la una y media del lunes 13 de diciembre de 2010. Están en el restaurante Balzac de Madrid en el primer diálogo que sostienen para un medio de comunicación, invitados para este número 1.000 de Babelia, y que harán en italiano como una cortesía de Marías con el profesor Eco. Cuando se sientan alrededor de la mesa redonda donde almorzarán, el semiólogo italiano (Alessandria, 1932) se queja de dolor de garganta y cuenta el trajín en que anda por la promoción de su último libro, El cementerio de Praga (Lumen), y el narrador y académico español (Madrid, 1951) desvela que acaba de terminar una novela que saldrá en primavera: Los enamoramientos (Alfaguara). Es el preludio de una conversación que se extenderá durante dos horas y terminará con ellos paseando y posando para el fotógrafo en un punto de encuentro simbólico de lo que aún no saben que van a decir.

JAVIER MARÍAS. Hace poco escribí en una de mis columnas de El País Semanal, a propósito de su última novela, tan criticada por L’Osservatore Romano, que pensaba que se había superado aquello de que en las artes las obras tuvieran que tener un carácter moral o edificante. Un hallazgo por parte de esa crítica, aunque para ellos era negativo, es que decía algo parecido a que su novela era un voyeurismo amoral.

UMBERTO ECO. ¡Es que esto es la novela, eso es una novela!

J. Marías. Justamente una novela es lo contrario de un juicio.

U. Eco. Deja abierta la puerta a las contradicciones.

J. Marías. Aunque hay novelistas que todavía se sienten como jueces, es una cosa extraña. Eso del voyeurismo amoral está muy bien visto. Porque una novela, a menudo, es así, el novelista no tiene que juzgar, tiene que mostrar, a veces explica lo que ha sucedido, cómo se ha llegado a este punto, pero eso no quiere decir que se justifique o que se ensalce el tema o presuma.

U. Eco. Luego está el lector que tiene la tendencia, o la mala fe, de atribuir al autor lo que piensa el personaje.

J. Marías. ¿No es preocupante en el sentido de que es volver a cierto primitivismo?

U. Eco. Usted escribe novelas, el 20% las leen de forma correcta, el resto equivocada.

J. Marías. Esto ha vuelto con fuerza. Yo escribo con un narrador en primera persona desde hace 20 años, y se tiende a confundir al narrador con el autor, con el yo.

U. Eco. Cuando publiqué El nombre de la rosa me escribió un lector preguntando por qué afirmaba que la felicidad consiste en tener lo que se tiene. ¡Yo nunca he dicho eso, es una tontería! Fue un personaje.

J. Marías. Esa idea de que las novelas deben tener un mensaje o dignificar algo es un primitivismo raro que ha vuelto.

U. Eco. Es una idea católico-marxista.

J. Marías. Pero el marxismo no…

U. Eco. El realismo socialista quería que las novelas tuvieran un mensaje y hablaran de los problemas del pueblo… Mi respuesta es que una novela tiene un mensaje, pero hay que trabajar mucho para comprenderlo, requiere esfuerzo, no te lo da el autor.

J. Marías. Un mensaje que se podría buscar fuera del libro.

U. Eco. O muchos. La Odisea tiene múltiples mensajes.

J. Marías. En cierto sentido surge por la promoción de los libros. No sé usted, pero yo a veces al escribir una novela me encuentro con que tengo una idea vaga sobre qué es esta novela, aparte de la historia misma, y algunos aspectos que no son claros para mí. Pero una vez terminada la entiendo un poco mejor. Entonces llega la promoción, las entrevistas, donde se espera que el autor diga: «Lo que he querido decir es esto». Y uno se ve obligado a afirmar algo o defender una idea que luego es tergiversada. Si no hubiera entrevistas y cierta necesidad de banalizar, de encontrar un eslogan…

U. Eco. Yo intento humillar a los que hacen estas preguntas, desafiar, hacer que se sientan algo estúpidos. Cuando me preguntan: «¿Con qué personaje se identifica?», contesto: «¡Con los ad-ver-bios!». Se quedan estupefactos. Es verdad, los escritores nos identificamos con los adverbios.

J. Marías. Pero para hacer esto hay que ser usted.

U. Eco. ¡No, no!, hay que ser bastante malos… Y, en cambio, nadie habla del estilo de la novela, de la construcción. La gente lee lo que dices y no le interesa la manera en que lo dices.

J. Marías. La palabra estilo desapareció del vocabulario, ni los críticos la usan.

U. Eco. Es la manera de formar, de hacer.

J. Marías. Y sin duda hay autores que reconocemos (…) Otro aspecto de los idiomas es cómo están desapareciendo cosas normales y se construyen mal las frases. Se está reduciendo el vocabulario.

U. Eco. Sí, sí.

J. Marías. Recuerdo que mi madre, cuando yo era adolescente, si me preguntaba o pedía algo, y yo respondía de cualquier manera, me decía: «Por favor, no seáis tacaños con la lengua». Hoy la gente es algo tacaña.

U. Eco. Ocurre también con la escritura… Luego está esa discusión sobre la literatura tradicional y experimental. Se trata de una diferencia un poco como derecha-izquierda, que en política ya no tiene sentido. La izquierda es el único partido conservador, porque quiere conservar la Constitución, el Parlamento. Así que la vanguardia y la literatura tradicional es una distinción que nació con la llegada del arte pop y de la posmodernidad, hacia mediados de los sesenta, cuando ya en la novela comercial se empezaba a usar el monólogo interior, que antes era un escándalo joyceano. Los narradores suramericanos, García Márquez, etcétera, redescubrieron la historia que había estado prohibida, pero se descubrió de forma más irónica. Hay una serie de barreras tradicionales. Recuerdo en Italia, en tiempos del grupo del 63, del que ya no hay un rostro emblemático, cuando un músico de vanguardia, Berio, escribió un ensayo sobre el rock, y otro músico de vanguardia, hablando de los Beatles, dijo: «Trabajan para nosotros»; y yo contesté: «¡Pero tú también trabajas para ellos!». Ya entonces había mezclas. Así que no diferenciaría tan claramente lo tradicional de lo experimental. Hay autores que se reconocen de forma inmediata, pero siempre los ha habido, el problema no es ése. En las obras comprometidas no hay una literatura experimental pura.

J. Marías. Lo que se llama experimental envejece cada vez más fácilmente, o se convierte en algo tradicional, o se incorpora a los usos normales. Hay una flexibilidad mayor. Siempre ha habido una enorme capacidad para hacer esto; aunque antes había un poco más de resistencia. Hoy no. Hoy normalmente todo se incorpora, todo se vuelve viejo, antiguo. El presente se convierte en pasado cada vez más rápido. Incluso en el momento en que un libro ya está disponible, parece que ya es pasado.

U. Eco. Algunas cosas resisten el paso del tiempo. Por fortuna existe este mecanismo, de lo contrario no permanecería nada, ni Sófocles, ni Eurípides…

…Y las palabras de Eco y Marías se entrecruzan animadas por el mundo clásico, hasta que dan un salto de 2.500 años para volver al umbral de esta era del ciberespacio cercada de incertidumbres y quejas por una supuesta incultura en plena revolución del aprendizaje y la comunicación de saberes y relaciones personales y emocionales. Entre bocado y bocado, sus palabras van a empezar a señalar lo mejor y más terrible de ese presente y sus consecuencias.

U. Eco. Internet es la vuelta de Gutenberg. Si McLuhan estuviera vivo tendría que cambiar sus teorías. Con Internet es una civilización alfabética. Escribirán mal, leerán deprisa, pero si no saben el abecedario se quedan fuera. Los padres de hoy veían la televisión, no leían, pero sus hijos tienen que leer en Internet, y rápidamente. Es un fenómeno nuevo.

J. Marías. Esto sería una ventaja.

U. Eco. Es el aspecto positivo.

J. Marías. Pero lo que decíamos sobre el lenguaje, de la generalización del uso del ordenador…

U. Eco. Ése es otro problema, no tiene nada que ver. No creo que el lenguaje se empobrezca, ¡cambia! El inglés es un lenguaje sintácticamente muy pobre en comparación con el francés, el italiano o el español; pero puede decir cosas maravillosas. Por lo tanto, se simplifica, pero puede decir muchas cosas. Las lenguas funcionan.

J. Marías. A veces tengo la sensación de que el exhibicionismo general es omnipresente en estas formas de comunicación. En Internet, por ejemplo, si pones una cámara puedes ver una habitación a todas horas; hay personas que tienen contacto entre sí para ver cómo duermen o preparan la comida, lo que no sería un espectáculo… A veces tengo la sensación de que esto guarda cierta relación con la pérdida progresiva de esa antigua idea, que ha acompañado a los hombres durante siglos, de que Dios lo veía todo, de que Dios los observaba a todos y que absolutamente NADA escapaba a su mirada y escrutinio. De alguna manera, esa idea, que aún tienen algunos de los que leen L’Osservatore, era algo terrible, pero que también consolaba, al haber un espectador que conocía nuestra vida. Aunque fuera la persona menos importante del mundo, había alguien…

U. Eco. ¡Un señor que pagaba una entrada para verte y luego juzgarte!

J. Marías. Te castigaba o premiaba. Al menos existías para alguien. Y esta creencia, obviamente, hablando en términos generales, se ha perdido. Creo que una parte de la población, de forma inconsciente, tiene nostalgia de esa idea. Había una enorme necesidad de ser contemplado, de ser observado.

U. Eco. Hoy van a la televisión o Internet.

J. Marías. Sí… Responde a esa nostalgia vieja de la idea de Dios.

U. Eco. Interesante. Si no, no se explica cómo tienen esta necesidad tremenda de dejarse ver, hasta cuando hacen caca. Y yo digo: ¿por qué?… ¡Es el aspecto más terrible e importante de la civilización en la cual vivimos! En Italia han sido asesinadas unas jóvenes, y cada noche hay programas de televisión que hablan de ello, ¡es vergonzoso!, porque se hace espectáculo de estas muchachas. Y el único consuelo por haber perdido a tu hija es salir en la televisión.

J. Marías. Ha hablado de consolación. Hay un elemento crematístico, evidentemente. Una ventaja para ellos porque al menos obtienen dinero y audiencia.

U. Eco. ¿Pero por qué necesitan la audiencia y explotan incluso la muerte de su hermana y van a la televisión para que les veamos? Volvemos a la tesis de Javier Marías.

J. Marías. Lo que es extraño es que, también, se quiera mostrar la pena. Había cosas que tradicionalmente no se enseñaban.

U. Eco. Hay gente que va a la televisión a decir: «Tengo cáncer. No me voy a callar. Voy a la televisión para que me conozcáis, para que sepáis que existo y ayudo a otros». Ésa es la justificación.

J. Marías. La gente dice ahora, en lugar de «quiero contarte», «quiero compartirte esta experiencia», o «quiero compartir contigo esta experiencia», en lugar de «quiero contarte». Se busca involucrar a otros.

U. Eco. Una frase que ya no se usa es: «A Dios pongo por testigo de», al menos él sabe que yo soy así. Ahora es «pongo a la televisión por testigo, la comunidad». Hay una comedia italiana donde el nombre es una propiedad privada, no debes difundirlo. Y está el dicho de que los trapos sucios se lavan en familia. Antes la privacidad, el mantenerlo todo oculto, era fundamental. Hoy es todo lo contrario. Y cosas peores. No sé el porqué de esa necesidad de que nos vean o de vampirizar vidas ajenas. La explicación sobre la nostalgia de Dios es la más lógica.

J. Marías. Hay un elemento que también tiene que ver con todo esto: son las filtraciones de Wikileaks. Hay algo extraño y divertido… Normalmente se nos prohíbe saber cosas, sobre todo si son de personas poderosas o con responsabilidades, y verlas ridiculizadas, el rey desnudo, o si meten la pata, eso se entiende. Lo que no entiendo es que después de este pequeño fenómeno haya gente que pida la transparencia: «Basta. Tenemos que saberlo todo. Tenemos que saber qué hacen los servicios secretos, los diplomáticos, lo que piensan». Pero ¡cuidado!, la hipocresía, la doblez, forma parte de la educación; es más, de la civilización. Si hubiera una transparencia general habría muchos más homicidios. Todos hablamos mal de vez en cuando de todos, cuando no están presentes, y también de las personas que amamos. Siempre hay objeciones. Probablemente si estas personas a las que queremos supieran cuáles son nuestras objeciones se olvidarían de todo lo positivo que pensamos de ellas y se obsesionarían con esa pequeña objeción que han conocido y que no habrían debido saber, y sería un desastre.

U. Eco. Las medidas diplomáticas están en la base de la convivencia civil.

J. Marías. Es una cuestión de civilización, es un logro.

U. Eco. Yo no digo: «No voy a cenar contigo porque eres aburrido». Digo: «No voy porque tengo un compromiso».

J. Marías. Entonces, pedir la transparencia general es también algo que iría en contra de los intereses de todos. Porque si todo fuera así se despediría más fácilmente a la gente. Tenemos esa tendencia, este desahogo. Es normal que haya personas que intenten saber lo que no se debe saber, pero también es normal que otras intenten evitar que las cosas se sepan. Lo ridículo es la pretensión de ciertas personas de que los que tienen el deber de evitar que las cosas se sepan renuncien a ese deber. Lo que no se puede es pedir la rendición total de los demás. Y con Wikileaks estoy sorprendido de que no se hubieran dicho cosas más brutales o que no intuyéramos. Son diplomáticos contenidos, educados. Me parece divertido… Es extraña esta pretensión, no entiendo estas ganas por saber todo.

U. Eco. Sí, sí. Y con esta ruptura del pacto de hipocresía, que es un pacto social fundamental («estoy encantado de conocerle», no estoy encantado, pero hay que decirlo) hemos entrado en una nueva era virtual de la información donde todo es más vulnerable y frágil. Al final tendremos que encontrar otros modos de confidencialidad. ¿Cuáles serán? No lo sabemos. Con Internet ya no es posible ninguna censura. Mire a Julian Assange, es para tirarlo al retrete, o a la basura, pero lo que ha hecho lo han sabido todos. Alguien dijo una vez que si hubiese existido Internet el Holocausto no habría sido posible, porque nadie podría haber dicho: «No lo sabía». En China no han aceptado el Premio Nobel de la Paz pero en China lo han sabido muchos. Lo que se está perfilando, y ya lo escribí años atrás, es un nuevo 1984 con la clase dirigente que tiene acceso a Internet y los proletarios que no tienen acceso, que ven la televisión. ¿Hacia qué futuro nos dirigimos? ¿Habrá más proletarios o más clase informatizada? Porque si un ordenador costara diez euros, quizá mil doscientos millones de chinos lo tendrían, y entonces serían menos los proletarios que los informatizados. Y la censura ya no podría funcionar. Pero si se mantiene una proporción como la actual será todo lo contrario, se puede seguir censurando.

J. Marías. Si se rompe la baraja y se extiende la transparencia, probablemente los ciudadanos tienen siempre las de perder ante la posibilidad de intrusión en sus vidas por parte de los Gobiernos, ya que es mucho mayor que al revés. Es el peligro que veo en esa legitimación de que se sepa todo…

U. Eco. Hay gente que lee Internet y no tanto los periódicos, pero quienes usan el ordenador no son por fuerza los más informados, porque si no leen los periódicos no están lo suficientemente informados. Así que los problemas de censura y libertad son difíciles de definir hoy, no son tan sencillos como antes.

J. Marías. Yo recuerdo una cosa que mi padre decía, y que escribió en un artículo, sobre que el hombre contemporáneo corría el riesgo de convertirse en un primitivo lleno de información. Y lo es en cierto sentido. Tal vez no se equivocaba. Y lo decía antes de la existencia, probablemente, de Internet. Hay un exceso de información que quizás impide saber. Ya no hay un filtro, no hay un criterio. Se da importancia a cosas que no tienen ninguna y al contrario. Luego la abundancia, que es un problema porque con el exceso de algo no hay tiempo para ocuparse de ello. Yo aún consulto la enciclopedia.

U. Eco. Yo pertenezco al grupo de los que ve muy cómodo encontrar el dato en el ordenador, soy un estudioso de profesión y no me fío de la primera información. Pero para una persona normal es una dificultad utilizar Internet de forma adecuada. Siempre digo que la televisión ha sido un bien para los pobres, en mi país ayudó a enseñar la lengua italiana, y ha perjudicado a los ricos, no de dinero sino de estudios; y con Internet ocurre lo contrario. Lo preocupante es cómo se enseña a la gente el filtro…

J. Marías. A la gente no le interesa filtrar o saber si son ciertas o no algunas cosas. Es una tendencia…

…Y los dos autores siguen explorando los desafíos, riesgos, temores y dudas agazapadas en la Red, hasta que llega el café y la conversación deriva hacia otro tema que involucra a los dos mundos que son uno, tierra y ciberespacio, y que viene de siempre y va para siempre: el duelo, la pugna, entre la belleza y la fealdad. Con Internet añadiendo más confusión. Es la era del politeísmo estético y de la industria de la fealdad y de las ideas. A una media hora de que el encuentro acabe, Eco y Marías están a punto de descubrirse a sí mismos diciendo que se ven como un anacronismo.

U. Eco. En el último capítulo de mis ensayos sobre la belleza y la fealdad, referido al mundo contemporáneo, hablo del politeísmo de la belleza, de las distintas épocas en las que había diferentes modelos. Hoy valen todos esos modelos, y los medios de comunicación han contribuido a difundir diferentes modelos de mal gusto. Ahí entra la iluminación en Navidad, que ha cubierto los monumentos con unas luces feísimas. Se ha cubierto todo de bombillitas y a la gente le gusta. Ya no hay criterios para distinguir. Por lo tanto, la belleza y la fealdad se convierten sólo en hechos de clase: la belleza para los ricos y la belleza para los pobres. ¿Pero es cierto que antes no era así?, me pregunto. Sabemos que en la antigua Roma había una comedia de Terencio, y en el anfiteatro una lucha de osos, pues algunos abandonaban el teatro y la comedia de Terencio y se iban a ver la lucha de osos. Los intelectuales lamentaban que la gente hubiera abandonado a Terencio para ir a ver a los osos. Y mientras Miguel Ángel hacía la cúpula de San Pedro había espectáculos callejeros que eran modelos de mal gusto, probablemente. Por eso no puedo ser tan severo con ese politeísmo de la belleza y la fealdad, porque tal vez creemos que en alguna época haya habido modelos fijos: la belleza del Renacimiento, del Barroco, son los modelos que se salvaron, pero había infinitos otros que se destruyeron. La pregunta es: ¿por qué se salvaron esos en concreto? Ahí vuelvo a un viejo argumento: en la Poética de Aristóteles se citan numerosas tragedias de las que no sabemos nada, se han perdido. ¿Por qué ésas se han perdido y han sobrevivido las de Sófocles, Esquilo o Eurípides? Hay dos respuestas: porque eran mejores o porque tenían recomendación de otros. Los demás no tenían apoyos. Quizá fueran mejores que ellos, pero no tenían padrinos, así que lo que nosotros identificamos con el gusto clásico de la antigua Grecia, ¿es lo que predominaba entonces o es sólo lo que ha sobrevivido? Y quién sabe, quizá dentro de dos mil años nuestro periodo va a aparecer con el único modelo de belleza o de fealdad que haya sobrevivido; quizás la televisión basura, quién sabe si se identificará con la culminación del arte de nuestro siglo, como ceremonias báquicas.

J. Marías. Tal vez hubo un momento en que la fealdad que el profesor Eco ha estudiado tan bien existía en el arte, pero era algo excepcional. Recuerdo, por ejemplo, la única vez que estuve en Sicilia, en Palermo, y fui a Bagheria; quería ver esas figuras grotescas de la villa Palagonia que habían mencionado Byron, Goethe y gente así que en su tiempo habían viajado expresamente para ver esto, algo horroroso. Figuras grotescas en el jardín de un noble. Esto parecía una excepción que incluso personas como Byron y Goethe iban a ver, como excepción. Lo que no existía hasta hace poco es lo que podríamos llamar una industria de la fealdad. Ahora hay una fealdad industrial totalmente deliberada, como mercado. El valor que podía tener la fealdad de rebeldía, transgresión o de desafío se ha perdido y, en este sentido, ¿qué quedará dentro de dos mil años? No lo sabemos, tal vez algo de este tipo, o tal vez otra cosa. Sobre aquellos que el profesor llama ricos, aunque yo soy un poco proletario, lo cierto es que personalmente creo que me estoy convirtiendo en un anacronismo. Yo mismo soy un anacronismo. No sé si usted también tiene esta sensación.

U. Eco. Esto es siempre un proceso normal de la vejez. Pero no sólo por la edad, sino como usted decía, la gente en lugar de leer a Proust está viendo la televisión, está viendo a Pippo Baudo. Yo, que utilizo el subjuntivo bien, me estoy convirtiendo en un anacronismo…

…Ríen, hacen bromas… La puerta se abre y aparece el fotógrafo. Son las tres y media pasadas. Unas primeras fotos dentro del Balzac. Luego toman cada uno su abrigo, Eco el negro, con su sombrero de paño a juego y su bastón, y Marías el azul marino, y salen a la calle al encuentro de un silencio de amanecer. Guiados por el fotógrafo, caminan calle y media bajo un visillo de nubes grises, sin saber que van estar en un punto de encuentro simbólico de algunos de los temas de los que acaban de hablar: el paseo y jardines fronterizos que unen la iglesia de Los Jerónimos, cerrada por obras, y la ampliación del Museo del Prado. Charlan, posan… Duque y Rey se despiden. Umberto Eco se marcha en coche a continuar su periplo a cuenta de su polémico El cementerio de Praga; y Javier Marías baja las escaleras que conducen hacia la Puerta de Goya del Prado rumbo a afinar Los enamoramientos.

WINSTON MANRIQUE SABOGAL

El País, Babelia, n. 1.000, 22 de enero de 2011

Javier Marías participa en la celebración de los 50 años de Santillana

El príncipe que sale en los libros de texto

En la escuela, los príncipes estudian con libros en los que salen sus abuelos, sus padres y los amigos de sus padres. Ha de ser una sensación particular, extraña y familiar a la vez. «Seguramente, la mayoría de los que estamos aquí los hemos manejado [los libros de Santillana] en algún momento de nuestra formación», dijo el príncipe Felipe en la Casa de América durante la celebración, presentada por Iñaki Gabilondo, del medio siglo de vida del grupo Santillana. Cuando él nació, hacía ocho años que Jesús de Polanco y Francisco Pérez González habían fundado la editorial que lleva ese nombre. Como él mismo, es muy posible que su esposa, la princesa Letizia, de 38 años, presente en el acto, se topase en el colegio La Gesta de Oviedo con una lección del libro de ciencias sociales -«conocimiento del medio» al cambio actual- ilustrada con la foto de un niño que ve a su padre jurar como rey en la tribuna del Congreso de los Diputados.

Lo que en 1960 era un sello que echó a andar con 600.000 pesetas de la época -unos 4.000 euros actuales- hoy es un conglomerado editorial transatlántico que ingresa 650 millones de euros y que, el año pasado, produjo más de 6.000 novedades para un catálogo de 31.000 títulos. Los números los recordó Emiliano Martínez, presidente del grupo Santillana, pero la tarde fue, sobre todo, de letras.

Javier Marías, el único que improvisó su discurso, recordó cómo teniendo veintipocos años fue invitado a participar en unos consejos de lectura de Alfaguara en los que había «seriedad sin solemnidad». Él mismo rompió la propia de un cumpleaños con príncipes cuando recordó que en aquellas reuniones, además de hablar de literatura -libros de Modiano, Bernhard, Walser salieron de allí- también «se comía, se bebeía… y se fumaba». La carcajada fue general y más de uno buscó en el bolsillo un paquete de tabaco prohibido entre cuatro paredes.

Marías recordó los tiempos de Jaime Salinas como editor de Alfaguara y José Manuel Blecua, director de la Real Academia Española, recordó una frase de su padre, el poeta Pedro Salinas: «La mejor manera de recordar un libro es leerlo con amor». Así leyeron él y sus colegas académicos el Diccionario panhispánico de dudas, salido de la colaboración entre Santillana y la RAE, y la edición conmemorativa de Cien años de soledad, otro fruto de la misma alianza. Tan llena de variantes estaba la obra de García Márquez que este, recordó Blecua, «tuvo que fijar el texto de cada una de las páginas y mandarlas firmadas a la RAE para su edición definitiva». La publicó Alfaguara.

Si el recuerdo de los fallecidos Jesús de Polanco, su hija Isabel y Francisco Pérez González fue constante, también lo fue la evocación de la temprana aventura americana de Santillana. La última gran estación de ese viaje, que todavía dura, es Brasil, y de ella habló Paulo Renato Souza, ministro de Educación en los dos mandatos del presidente Fernando Henrique Cardoso. Souza, además, aprovechó para reflexionar sobre la extensión de la educación pública -la gran revolución «en el desarrollo de la civilización occidental en los dos últimos siglos»- y los retos a los que se enfrenta en la era digital. «Es inútil poner todas las esperanzas en los cambios en las formación de los nuevos maestros», dijo. «Ello es importante, pero tomaría un largo tiempo del que no disponemos». ¿La solución? La actualización, la «formación continuada».

«El conocimiento hoy», afirmó el exministro brasileño, «se hace obsoleto cada cinco o diez años. Nuestros abuelos y nuestros padres vivieron un mundo muchísimo más estable». José Manuel Blecua había dicho que estaba seguro de que la celebración del centenario de Santillana merecerá palabras mucho más elogiosas que las que se oyeron en la Casa de América. Es posible, así, que dentro de 50 años, otro príncipe (o una princesa) recuerde el primer día en que, en un libroweb de Santillana -este curso se han puesto en marcha-, vio a un antepasado suyo leyendo un discurso en un viejo soporte llamado papel.

JAVIER RODRÍGUEZ MARCOS

El País, 18 de enero de 2011

Santillana, un libro de medio siglo

[…] La editorial celebra hoy medio siglo de vida en la Casa de América de Madrid durante un acto presidido por los príncipes de Asturias y en el que, presentados por Iñaki Gabilondo, participarán el escritor Javier Marías; José Manuel Blecua, director de la Real Academia Española; Paulo Renato de Souza, ex ministro de Educación de Brasil, y Emiliano Martínez, actual presidente del Grupo Santillana.

[…]

Otro de los hitos de las ediciones generales de Santillana llegaría con la compra en 1980 de Alfaguara. Fundada en 1964 por Jorge y Camilo José Cela, la editorial de nombre árabe -«la fuente que mana y corre»- tuvo a su particular aguirre en Jaime Salinas. El cosmopolita hijo de Pedro Salinas se rodeó de un consejo editorial del que, entre otros, formaban parte, Juan Benet, Juan García Hortelano, Luis Goytisolo y un veinteañero Javier Marías: «Delante de una paella nos dedicábamos a zascandilear y a poner de los nervios a Jaime, que hacía de profesor enfadado. Cuando decía ‘al trabajo’ empezábamos a debatir. Teníamos libertad absoluta: nunca pensamos si un libro se vendería o no».

De aquellas paellas salieron nombres como Thomas Bernhard o Robert Walser, a los que se sumó más tarde J. M. Coetzee. Veinte años antes de ganar el Premio Nobel, el escritor sudafricano desembarcó en España cuando se hizo cargo de la editorial el novelista José María Guelbenzu, que, simultáneamente, dirigía Taurus. «Coetzee es el nombre con el que me quedaría de mi etapa allí. La idea era elegir a un autor de un área lingüística y apostar por él publicando varios libros», dice Guelbenzu. «De Taurus, la Historia de la vida privada, de Georges Duby».

Como Benet y Marías, Guelbenzu es hoy un autor de Alfaguara…

JAVIER RODRÍGUEZ MARCOS

El País, 18 de enero de 2010

Seguridad, inquietud y el ‘libroweb’

«Un editor», dice Javier Marías, «debe dar a sus autores dos cosas aparentemente contradictorias: seguridad e inquietud. Seguridad para hacer su trabajo en buenas condiciones, inquietud para hacerlo siempre con los cinco sentidos y sin bajar nunca la alerta». Según el autor de Tu rostro mañana, «Alfaguara y el entorno de Santillana» le han proporcionado «ambas cosas».

J.R.M.

El País, 18 de enero de 2011

LAZONA FANTASMA. 16 de enero de 2011. Los nuevos explotadores

Nunca creí que llegara a sentir, por nuestros diputados elegidos democráticamente, casi tanto desprecio como el que sin cesar sentía por sus predecesores franquistas, aquellos monigotes corruptos que se limitaban a vitorear las decisiones del dictador, con sus bigotitos ridículos y sus disfraces de domadores. Los actuales no obedecen a alguien tan ruin, pero sí a los jefes de filas de sus respectivos partidos, lo cual los convierte en meros peleles que están ahí para hacer bulto. No discrepan, no piensan, todos sumisos y dóciles. En el plazo de escasos días, estos señores y señoras han aprobado por unanimidad una ley fascistoide contra el tabaco (con delaciones anónimas; y nadie ha logrado argumentarme por qué no puede haber bares y restaurantes de autoservicio, o con camareros que fumen por costumbre, en los que se pueda encender un pitillo), y han tumbado una medrosa ley (la llamada ley Sinde) que, tras años de piratería internética totalmente impune, trataba de frenar un poco ese bandidaje. Ante la furia de los piratas, casi todos se han arrugado. No sé qué diablos hacen aún en el Congreso. Si tanto les puede el miedo, deben dedicarse a otra cosa. Es como si un policía se achanta al ver a un ladrón robando, y no trata de impedírselo por si se le enfada. Me parece una reacción normal y comprensible, pero ese individuo no está capacitado para ser policía.

También me parece normal y comprensible que la gente piratee lo que pueda, si nada va a pasarle por hacerlo. No les quepa duda de que si no estuviera penado hurtar en los almacenes, casi nadie pasaría por caja. Así que no culpo a los usuarios ni creo que deban ser perseguidos. La tentación es muy fuerte, y no estamos para resistirlas. Ahora bien, lo que no suele parecerme de recibo son las “justificaciones” y “argumentaciones” que esgrimen quienes tientan –y hacen negocio– y algunos de esos usuarios. No sólo quieren gratis películas, canciones, series televisivas y libros, sino que además pretenden tener razón y que se los aplauda por apropiarse de lo ajeno. Y poco menos que abogan por la desaparición de los derechos de autor y la supresión de la propiedad intelectual. Son los nuevos explotadores, que aspiran a tomar el relevo de quienes siempre explotaron a los artistas, los mecenas y los empresarios. Hablaré de lo que más conozco, los libros. Mucha gente sigue ignorando que el autor de una novela percibe sólo el 10%, y en las ediciones de bolsillo un 8% o incluso un 6%. Eso significa que, si una novela cuesta 20 euros, el novelista se embolsa 2 por cada ejemplar vendido. Está, por tanto, mucho más cerca del campesino que cultiva patatas que de ninguna otra figura de la larga cadena que lleva esas patatas al mercado de la esquina. Esto no siempre fue así. Durante largo tiempo fue peor. El escritor vendía su obra al editor, por una cantidad fija y normalmente miserable. El editor se convertía, con eso, en propietario único de la obra, y ya podía ésta tener un éxito demencial y vender millones de ejemplares, que el autor no veía un céntimo más, mientras que el editor se enriquecía indefinidamente con el trabajo y el talento ajenos. El reconocimiento del copyright y de la propiedad intelectual puso fin (relativo) a semejantes explotación y abuso. Ir contra esos logros es lo más reaccionario que quepa imaginar, tanto como ir contra la jornada de ocho horas y pretender que los trabajadores vuelvan a deslomarse durante doce o catorce, como en tiempos de Dickens.

A menudo se emplea el término “privilegiados” para referirse a los cineastas, cantantes y escritores de éxito. Un artista no es nunca un “privilegiado”, no puede serlo. Cada uno saca su creación y la pone ahí, en el mercado. No obliga a nadie a verla, escucharla o leerla, no está en su mano. No elige a sus espectadores, oyentes o lectores, siempre son éstos quienes lo eligen a él, libremente. Se los gana con su talento o porque tiene suerte, uno a uno, ninguno le es regalado. Sus posibilidades de fracasar son infinitamente mayores que las de triunfar. Corre su riesgo. Es privilegiado el hijo del banquero, que lo tiene todo hecho y hereda una fortuna. O el del rico empresario. Lo es más, incluso, el del zapatero, que hereda una zapatería y no parte de la nada. El artista, cualquiera que sea su origen, parte siempre de cero, jamás puede ser un “privilegiado”. Ni Ken Follett, que también se ha ganado a pulso a cada uno de sus lectores.

Josep Ramoneda es un hombre inteligente y de izquierdas de toda la vida. Por lo segundo –que no por lo primero– se puede entender que escriba esto: “… también habrá que encontrar las fórmulas para que los herederos de un artista no vivan setenta años del cuento”. Se refiere al hecho de que las obras artísticas pasan a ser del dominio público “sólo” a los setenta años de la muerte de su autor. Lo curioso es que eso, que considera tan injusto, no le ocurre a nadie más: el dinero, las propiedades, las casas, los negocios, las empresas, los cuadros, los muebles y las zapaterías se heredan hasta el infinito, generación tras generación, y eso nadie lo discute ni a nadie le parece mal, ni siquiera a Ramoneda, que es o era de izquierdas. Sólo los herederos de los artistas “viven del cuento”, cuando justamente éstos ni siquiera han comprado lo que poseen, sino que lo han creado e inventado. Sólo a ellos se les pone un límite para legar eso a sus descendientes, a nadie más: ni al banquero ni al empresario ni al zapatero. Y aún quieren acortarles el plazo los nuevos explotadores. ¿Qué cuenta traerá ser artista, si se los esquilma por todos los flancos y son los peor tratados?

JAVIER MARÍAS

El País Semanal, 16 de enero de 2011

Javier Marías: «La novela es lo mejor para examinar y distorsionar el tiempo»

El escritor y académico Javier Marías, que hoy ha sido galardonado en Italia con el premio Nonino de Literatura, por ser uno de los más grandes escritores de nuestro tiempo que ha revolucionado el tiempo narrativo, ha señalado que la novela es «lo mejor para examinar y distorsionar el tiempo».

Javier Marías (Madrid, 1951) ha mostrado a Efe su satisfacción y agradecimiento por el galardón. «Es muy agradable recibir este premio por el jurado que lo forma, con personas a las que admiro mucho», ha comentado.

El jurado del galardón, que este año cumple su 36 edición, ha estado presidido por el Premio Nobel V.S Naipaul e integrado por Adonis, John Banville, Ulderico Bernardi, Peter Brook. Luca Cendali, Antonio R. Damasio, Emanuel Le Roy Ladurie, James Lovelock, Claudio Magris, Norman Manea, Morando Morandini, Edgar Morin y Ermanno Olmi.

En relación con la razón dada por el jurado para premiarle, el autor de Corazón tan blanco ha reiterado que como novelista el tiempo siempre le ha interesado mucho.

«La novela es lo mejor para examinar y distorsionar ese tiempo; y, a veces, me sorprende que a algunos autores no les importe eso. Ese tiempo que no tiene tiempo de existir en la vida real, en la novela sí que le puedes dar la verdadera dimensión. Y es verdad que intento suspender el tiempo y, por ejemplo, hago que una escena dure muchas páginas».

El académico y autor de Todas las almas ha recordado, además, que recibir un premio fuera de España «-y yo estoy acostumbrado a que me den más fuera que dentro-, es algo muy interesante porque uno tiene la sensación de que en el extranjero no suele haber factores distorsionantes como en el propio país de uno, de antipatías y simpatías. Parece que si te premian es porque les gustaba de verdad, sin recovecos».

Según el jurado, muy pocos autores como él pueden narrar la existencia individual en sus pasiones y ambigüedades y el tejido social e histórico en el que se mueven.

El escritor italiano Claudio Magris será el encargado de entregar el galardón a Marías, el próximo día 29.

EFE, 14 de enero de 2011

Javier Marías gana en Italia el Premio Nonino

Hay tantos premios y tan bien dotados económicamente que la diferencia la termina marcando el jurado que los otorga. Algo tendrá, pues, una obra cuando la bendice un tribunal presidido por el Nobel V. S. Naipul y compuesto, entre otros, por figuras como Peter Brook, Claudio Magris, John Banville, Norman Manea y Edgar Morin.

Todos esos nombres están detrás de la concesión a Javier Marías (Madrid, 1951) del último premio internacional Nonino por el conjunto de su obra, publicada en Italia por la editorial Einaudi. «Aunque se destaque una trayectoria completa, no tengo la sensación de que me den por viejo o por terminado», afirmó ayer con humor el autor de Tu rostro mañana, que el día 29 recibirá el galardón, dotado con 8.000 euros.

Se lo entregará Claudio Magris durante una ceremonia en la que participará buena parte del jurado, que en su acta calificó al autor español como «uno de los grandes escritores de la actualidad», alguien que ha «revolucionado el sentido del tiempo narrativo». El premio sorprendió a Marías enfrascado en la «última revisión» de su nueva novela, Los enamoramientos, que publicará en primavera la editorial Alfaguara.

El acto de entrega tendrá lugar en Ronchi di Percoto, en la región de Friuli-Venezia Giulia, al noreste de Italia. Nonino es una de las grandes marcas de grappa (el aguardiente italiano), de ahí que la ceremonia tenga lugar en la sede de su destilería. Javier Marías y el arquitecto Renzo Piano, otro de los premiados este año, pasan a engrosar un palmarés del que también forman parte Claude Lévi-Strauss, Norbert Elias, Jorge Amado, Henry Roth, Edward Said y Leonardo Sciascia. Entre los autores hispanos galardonados anteriormente están Álvaro Mutis, Jorge Semprún, Raimon Panikkar y Julio Llamazares.

J. R. MARCOS

El País, 15 de enero de 2011

Javier Marías, nuevo Premio Nonino de Literatura

Un jurado presidido por el Premio Nobel, V. S. Naipaul e integrado por Adonis, John Banville, Ulderico Bernardi, Peter Brook, Luca Cendali, Antonio R. Damasio , Emanuel Le Roy Ladurie, James Lovelock, Claudio Magris, Norman Manea, Morando Morandini, Edgar Morin y Ermanno Olmi ha concedido el Premio Nonino de Literatura en su 36ª edición a Javier Marías por considerarlo uno de los más grandes escritores de nuestro tiempo, que ha revolucionado el sentido del tiempo narrativo.

El jurado ha destacado que muy pocos autores como él pueden narrar la existencia individual en sus pasiones y ambigüedades y el tejido social e histórico en el que se mueven. «Tras leer sus libros miramos nuestra vida de una manera diferente, más madura y pausada al mismo tiempo», han añadido.

Claudio Magris le hará entrega del galardón el 29 de enero en Italia.

La Vanguardia, 14 de enero de 2011

Il Mattino di Padova

LA ZONA FANTASMA. 9 de enero de 2011. Los años diez

Acaba de comenzar una nueva década, la de los años diez. La anterior careció de nombre, no sé por qué; debería haber sido la de los años cero, no sólo por ese número que apareció insistentemente y duplicado, sino por la degradación general que los ha acompañado en casi todos los ámbitos. Se iniciaron significativamente con los aviones estrellados contra las Torres Gemelas, y desde entonces una legión de fanáticos asesinos ha causado millares de muertos en todas partes, ha cambiado nuestras costumbres y ha propiciado que los gobiernos democráticos lo sean cada vez menos. La mayoría de los vivos actuales no llegaremos a ver el fin de esa permanente amenaza. Pero bueno, cada época tiene sus peligros y sus miedos, y, tras tomar nota de su existencia, hay que hacer caso omiso de ellos para seguir adelante.

Más raro y más inquietante parece el proceso de locura y estupidez colectivas que va aquejando a no pocos países, y todos sabemos cuán fácilmente se contagian esos dos males, sobre todo cuando empiezan a no ser percibidos como males, sino como lo normal y aun apreciable. En los sitios en que los ciudadanos aún votan a sus gobernantes, y tienen en teoría la capacidad para sustituirlos, nos vamos encontrando con fenómenos cada vez más inexplicables para el sentido común y la decencia. En Venezuela ha sido apoyado masivamente un individuo, Hugo Chávez, que se dio a conocer por una tentativa de golpe de Estado militar –militar, no se olvide– que lo llevó a la cárcel. Pronto fue amnistiado, y los electores lo premiaron convirtiéndolo en su Presidente pese a estar más que probada su falta de sentido democrático. Fue como si Pinochet o Videla hubieran fracasado, en su momento, en sus respectivos golpes de Estado, y tras cumplir una breve condena hubieran sido elevados por los electores a máximos mandatarios de Chile y de la Argentina. Al arrancar esta nueva década, Chávez ha decidido legislar durante dieciocho meses a golpe de decreto, lo que le va a permitir hacer reformas en la Constitución, ya rechazadas por los venezolanos, y convertir su país en una dictadura sin disimulos. El modelo de Hitler, que alcanzó el poder a través de las urnas para luego abolirlas, sigue vivo. Lo asombroso es que esos mismos venezolanos votaran, ya la primera vez, a un golpista militar del que no cabía esperar otra deriva.

En los Estados Unidos se reeligió, en 2004, a Bush Jr después de que hubiera fundadas sospechas de fraude electoral en su victoria de 2000, y de que ya fuera patente que había mentido y engañado para desencadenar la Guerra de Irak en 2003. A la mayoría no le importó lo más mínimo. De Rusia más vale no hablar, no habría espacio. En cuanto a Italia, se ha elegido repetidamente a Berlusconi, un sujeto turbio desde antes de su entrada en política, condenado por corrupción y soborno (pero cuando los delitos ya habían prescrito, convenientemente) y cuya mano derecha durante años lleva ya tiempo en la cárcel por colaboración mafiosa. Gobierna de manera similar a como lo hace Chávez, legislando en su exclusivo interés particular y difamando, mediante su cuasi monopolio mediático, a cuantos se le oponen. Ahora nos enteramos de que quien acaba de ser elegido Primer Ministro de Kosovo, Hashim Thaci, está acusado –y no por cualquier irresponsable, sino por el relator para los Derechos Humanos del Consejo de Europa– de haber sido jefe de una red criminal que engordaba a presos serbios, como si fueran ocas, para más tarde pegarles un tiro, trocearlos y vender sus órganos, principalmente los riñones. Eso entre otras actividades por el estilo de nobles. No es posible que en un lugar tan pequeño la gente que hoy lo ha votado (aunque haya dudas sobre la limpieza de las elecciones, claro) no tuviera ni idea de la catadura de semejante elemento, si las acusaciones resultaran ser ciertas. Pero éstas son tan llamativas y graves –y más viniendo de donde vienen– que la mera posibilidad de que lo sean bastaría para que los kosovares, por si acaso, le hubieran dado la espalda. No ha sido así, y eso ya es inexplicable.

No caben aquí más ejemplos, aunque los haya. Es como si cada vez más gente apoyara a delincuentes indudables o probables y quisiera ser gobernada por ellos. No me extrañaría mucho que, de extenderse la tendencia, los narcos mexicanos acabaran rigiendo, por aclamación popular, los destinos de su país, o la Camorra, la Mafia y la ’ndrangheta (pronúnciese “landrángueta”), en plan triunvirato, los de Italia. En España ya hay ejemplos menores de las mismas simpatía y admiración hacia los delincuentes. Los incontables acusados de corrupción (de varios partidos, pero sobre todo del PP que en breve puede mandar sobre nosotros con mayoría absoluta) suelen ser defendidos y refrendados por sus electores, que los recompensan por los indicios de criminalidad que los señalan. No sería descartable que Mario Conde ocupara hoy La Moncloa si sus delitos se hubieran destapado en estos años, y no cuando se descubrieron. Recuérdese que era un ídolo para la mayoría de españoles y que la Universidad Complutense le otorgó un doctorado honoris causa –esa cosa tan devaluada en todas partes– con asistencia del Rey al solemne y estúpido acto con espantoso birrete con cortinilla.

Así está el panorama al iniciarse los años diez. No quisiera ser agorero, pero hay algunas actitudes colectivas que empiezan a recordar a las de los años treinta del pasado siglo, cuando a la gente le dio por confiar en palmarios fantoches, matones, bribones, gangsters, bestias pardas y dictadores.

JAVIER MARÍAS

El País Semanal, 9 de enero de 2011

Por qué escribo

JAVIER MARÍAS:

Como ya he dicho en muchas ocasiones, escribo para no tener jefe ni verme obligado a madrugar.

También porque no hay muchas más cosas que sepa hacer, y lo prefiero y me divierte más que traducir o dar clases, que al parecer sí sé hacer. O sabía, son actividades del pasado.

También escribo para no deberle casi nada a casi nadie ni tener que saludar a quienes no deseo saludar.

Porque creo que pienso mejor mientras estoy ante la máquina que en cualquier otro lugar y circunstancia.

Escribo novelas porque la ficción tiene la facultad de enseñarnos lo que no conocemos y lo que no se da, como dice un personaje de la novela que acabo de terminar. Y porque lo imaginario ayuda mucho a comprender lo que sí nos ocurre, eso que suele llamarse «lo real».

Lo que no hago es escribir por necesidad. Podría pasarme años tan tranquilo, sin escribir una línea. Pero en algo hay que ocupar el tiempo, y algún dinero hay que ganar. También escribo para eso.

Reportaje de JESÚS RUIZ MANTILLA

El País Semanal, 2 de enero de 2011

LA ZONA FANTASMA. 2 de enero de 2011. Mirar lo inadvertido

Por desgracia no conservo el recorte y no puedo citar con exactitud, pero hace poco leí (ni siquiera recuerdo si fue en una publicación británica o norteamericana) la reseña de un libro, que empezaba más o menos así: «La anterior novela de este autor fue saludada con frases como ‘Quizá sea la primera obra maestra literaria del siglo XXI’, y se la comparó con En busca del tiempo perdido de Proust. Con tamaños elogios, lo normal es que los lectores se vieran ahuyentados, o en todo caso no corrieran a hacerse con un ejemplar…» Tal vez lo más sintomático y preocupante es que, en primera instancia, seguí leyendo la crítica como si nada, es decir, aceptando inicialmente que quien la escribía estaba en lo cierto y se limitaba a expresar una verdad «consabida» y poco menos que universal. Hasta que al cabo de un rato me noté desazonado y volví a ese párrafo, y, tras pensármelo dos veces, me dije que su verdad no tenía nada de «consabida» ni de «normal», aunque quizá sí de universal.

EDHASA, 1971

¿Qué ha pasado en el mundo para que semejantes elogios se conviertan en una gran desventaja comercial para la obra que los recibe? ¿Cómo es que tales loas pueden resultar «veneno para la taquilla», por tomar prestada la clásica expresión aplicada al cine, esto es, para las ventas? Dentro de unos meses se cumplirán cuarenta años -me da vértigo asumirlo- de la publicación de mi primera novela, Los dominios del lobo, cuando yo tenía diecinueve. Eso significa que, aunque no sea el más viejo, probablemente soy uno de los más veteranos entre los escritores de mi generación, y que llevo todo ese tiempo familiarizado con el mundo literario y editorial. En otras palabras, he vivido mucho de cerca, y en muy diferentes épocas. Y si, no hace ya cuatro décadas, sino tan sólo una, un libro hubiera sido objeto de tan laudatoria acogida, el autor, el editor, el distribuidor y los libreros habrían dado saltos de alegría, no sólo por la alabanza en sí -que incluso hoy sería halagadora-, sino porque habrían calculado el beneficio en ventas que habría aportado a la obra en cuestión. En ningún caso les habría sido motivo de preocupación, ni habrían visto en ello ningún posible perjuicio. Todo lo contrario.

¿Qué ha sucedido, así pues? ¿Y qué es, entonces, lo conveniente? ¿Que las reseñas de una novela la califiquen de porquería, a fin de que las masas lectoras se dignen leerla? Tampoco parece eso probable. ¿Que digan que es apasionante, divertida, conmovedora, que engancha de la primera a la última página por su ritmo trepidante y su intriga, sin entrar en consideraciones acerca de su calidad literaria? Acaso sea este último, extraña y absurdamente, el adjetivo dañino. «La primera obra maestra literaria del siglo XXI», era el elogio citado. El adjetivo es en realidad redundante si se habla de una novela, o lo habría sido hasta hace no mucho, porque todas son literarias por definición, desde la del hoy nocivo Proust hasta las de Barbara Cartland y sus múltiples herederas de tono cada vez más subido o «porno suave». Pero desde hace unos años se reserva el término -y son los propios editores y críticos los primeros en usarlo, tirando piedras contra sus tejados- para las novelas que antes se llamaban meramente «ambiciosas». Es decir, para las que no tenían como único propósito el de entretener, sino que, además (una cosa no excluía ni excluye la otra), pretendían que el lector viera y conociera el mundo mejor, que quizá pensara en cuestiones en las que normalmente no piensa, que reparara en aspectos de los que por lo general se hace caso omiso. Looking at the Overlooked, se titulaba un ya viejo libro de Norman Bryson, sobre la pintura de bodegones. Eso es lo que -entre otras cosas- ha hecho la literatura de todos los tiempos, la que ha pervivido, la que aún leemos pese a los años o siglos transcurridos. Mirar lo inadvertido, o lo pasado por alto. Eso hacen Montaigne y Cervantes y Shakespeare, Flaubert y Conrad y Henry James, aunque vaya usted a saber si las comparaciones con estos autores serían hoy tan «venenosas» como la ya comentada con Proust.

Hace cuarenta, treinta, veinte, incluso diez años, la reacción de mucha gente no particularmente ilustrada -pero sí aficionada a la lectura- habría sido: «He de leer esta obra maestra literaria de la que hablan. No quiero perdérmela, ni quedarme atrás, tengo que conocer lo mejor». Si yo seguí adelante con esa reseña como si nada, en primera instancia, y el crítico decía lo que decía como lo más natural del mundo, es porque la actitud ha dado un vuelco. No me extrañaría que numerosos lectores reaccionaran hoy así: «Pues que la lea su padre, que yo no. Esa novela será elitista y seguramente un coñazo, quizá requiera algo de esfuerzo o excesiva atención. No me interesa lo que contenga, por bueno y profundo que sea. No por perdérmela me voy yo a quedar atrás. Son el autor y ese crítico los que se quedan atrás, quienes escriben en el vacío y se preocupan por asuntos y sutilezas que no importan más que a unos pocos. No se dan cuenta de que la palabra ‘pocos’ es cada vez más sinónima de ‘nadie’. Esa gente que señala lo inadvertido está de sobra, y su tiempo ya ha pasado».

A quienes no comparten este punto de vista, el único consuelo que puedo ofrecerles, a título meramente subjetivo, es que soy de la creencia de que casi ningún tiempo pasa nunca enteramente, sino que casi todos tan sólo se esconden para regresar.

JAVIER MARÍAS

El País Semanal, 2 de enero de 2011

La expedición de Ursúa y los crímenes de Aguirre

En mi época, el conquistador Lope de Aguirre quedaba fuera de los libros de texto. Era tal la admiración hacia Cortés o Pizarro que nadie habría celebrado las andanzas de ese aventurero rebelde y «antisistema» que protagonizó una de las gestas más bárbaras de la conquista de América. Sin embargo, ya existía por entonces una amplia bibliografía sobre el asunto, incluso una gruesa novela de Sender y una obra teatral de Torrente Ballester. Pero tuvo que ser una alucinante película de Herzog quien nos abriera definitivamente los ojos. Tras la fachada heroica de la España Imperial se ocultaba un lado oscuro, a lo Conrad, donde el horror había campado a sus anchas. Ese horror no sólo se refería a la leyenda negra alimentada por los ingleses, sino a las intrigas que habían arrojado a los propios españoles a enfrentamientos de corte fratricida. En este campo, Lope de Aguirre había sido el conradiano Kurtz.

Robert Southey escribió este El corazón de las tinieblas a la española con amplio conocimiento de la materia. Y lo que más sorprende es el excelente pulso de la narración. Es claro, ágil, directo. No da respiro. Se diría que el lector va de la mano de Southey, a través de la selva impenetrable, sujetando su steady cam. Pocas veces la historia de la conquista de América se nos ha presentado de manera tan convincente más allá de toda su sordidez. Es la peripecia de unos hombres bravos, sin escrúpulos, que nos asoman al fondo oscuro del corazón humano.

MIGUEL DALMAU

Qué leer, enero de 2011